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Che è nella tua bocca, è verità

Perché Gesù compì miracoli? Perché mostrò di avere autorità sul vento e sulle onde, di poter camminare sull’acqua, scacciare i demoni e guarire le persone dalle loro malattie?

Attraverso le sue azioni, stava dimostrando che le parole che pronunciava venivano direttamente da Dio.

Se era in grado di compiere azioni che solo Dio poteva fare, allora è ragionevole credere che anche le sue parole fossero quelle che Dio intendeva che egli pronunciasse.

Nel caso di Gesù, però, egli non solo parlava da parte di Dio: affermava anche di essere Dio. Quindi, i miracoli che compiva servivano anche a confermare che lui, in quanto Dio, era presente in Israele nella forma di un essere umano, nella persona di Gesù, e che le parole che pronunciava, mentre dichiarava di essere Dio, erano vere.

Nel caso di Elia, Dio gli aveva detto di andare a vivere con una donna e suo figlio nella città di Zarepta. Lì, Elia chiese alla donna di preparargli del pane con l’ultima farina e l’ultimo olio che possedevano. Nella regione c’era una grave carestia, causata dall’assenza di pioggia per diversi anni, e la donna e suo figlio erano arrivati al punto di credere che stessero per morire. Erano alla fine delle loro risorse, alla fine di ciò che avevano. Elia, però, disse loro che Dio aveva promesso che la farina e l’olio non si sarebbero esauriti finché lui fosse rimasto con loro, fino al giorno in cui sarebbe tornata la pioggia.

Tuttavia, la donna sembra essere rimasta incerta. Fu solo quando suo figlio si ammalò e morì, per poi essere risuscitato grazie alle preghiere di Elia, che credette pienamente che le parole di Elia venivano da Dio:

Il SIGNORE esaudì la voce di Elia: l’anima del bambino tornò in lui, ed egli visse. Elia prese il bambino dalla camera di sopra e lo portò al pian terreno della casa, e lo restituì a sua madre, dicendole: «Guarda! Tuo figlio è vivo». Allora la donna disse a Elia: «Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio e che la parola del SIGNORE, che è nella tua bocca, è verità».

1 Re 17:22-24

In diversi casi, ho sentito persone nella chiesa parlare dell’“autorità” che hanno su spiriti, demoni, malattie e altri tipi di situazioni difficili. Tuttavia, allo stesso tempo, parlano di Dio in modi che contraddicono ciò che Egli è e ciò che ci è già stato detto nella sua Parola. In questi casi, mi viene in mente che spesso ci piace l’idea che Dio ci dia potere e ci piaccia esercitare quel potere, senza però conoscere veramente Dio né comprendere il suo carattere. In altre parole, ci piace il potere che Dio può darci perché vogliamo dimostrare agli altri di avere qualche abilità speciale, ma non necessariamente amiamo Dio per quello che Egli è, per il suo vero essere.

In breve, in quei casi, il nostro interesse è nel fare colpo sugli uomini ed essere considerati persone spirituali grazie a qualche potere speciale, e non nel piacere a Dio vivendo per Lui. In quei casi, vogliamo che la gloria venga a noi, non a Lui.

Ovviamente, questo è un problema.

Lo scopo di un miracolo, o di un’azione che solo Dio può compiere, è confermare le parole che vengono pronunciate. Il miracolo è la conferma che quelle parole provengono da Dio.

Ma il nostro ruolo non è quello di desiderare i miracoli o il potere, bensì di conoscere, amare e obbedire a ciò che Dio ci ha detto. In questo modo, è Dio a ricevere la gloria per ciò che ha fatto, non noi. Se Dio decide di compiere un miracolo, benissimo. A Lui deve andare la gloria per ciò che ha fatto! Sta mostrando la sua potenza e confermando la sua Parola. Questo è qualcosa che è accaduto anche a me e attraverso di me, e posso confermare che è possibile. Ma il potere non è nostro da distribuire. È la potenza del Signore, da elargire quando Egli vuole e a chi Egli vuole, per confermare ciò che ha detto.

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Finché sia tutto sparito

Ahia diede a Geroboamo una profezia: Dio aveva strappato il regno d’Israele dalle mani di Roboamo e lo aveva dato a Geroboamo, consegnandogli la parte più grande del regno. Ma Geroboamo fu un re malvagio: guidò il popolo a venerare gli dèi dei popoli circostanti, arrivando perfino a erigere vitelli d’oro, altari sugli alti luoghi della terra e festività religiose fasulle per distogliere il popolo dai festival che Dio aveva comandato.

Ci fu un momento in cui il figlio di Geroboamo si ammalò, così Geroboamo mandò sua moglie da Ahia, lo stesso profeta che gli aveva annunciato che avrebbe regnato sulle tribù del nord d’Israele. Il compito della donna era sapere se il loro figlio sarebbe sopravvissuto.

Ahia diede una risposta terribile alla moglie di Geroboamo. Non solo il ragazzo sarebbe morto, ma quella sarebbe stata l’unica forma di misericordia che Dio avrebbe mostrato alla casa di Geroboamo a causa della sua malvagità:

Per questo io faccio piombare la sventura sulla casa di Geroboamo; sterminerò la casa di Geroboamo fino all’ultimo uomo, tanto chi è schiavo come chi è libero in Israele, e spazzerò la casa di Geroboamo, come si spazza lo sterco finché sia tutto sparito. Quelli di Geroboamo che moriranno in città saranno divorati dai cani, e quelli che moriranno nei campi saranno divorati dagli uccelli del cielo; poiché il SIGNORE ha parlato. Quanto a te, àlzati, va’ a casa tua; non appena avrai messo piede in città, il bambino morrà. Tutto Israele lo piangerà e gli darà sepoltura. Egli è infatti il solo della casa di Geroboamo che sarà messo in una tomba, perché è il solo nella casa di Geroboamo in cui si sia trovato qualcosa di buono rispetto al SIGNORE, Dio d’Israele.

1 Re 14:10-13

Il figlio di Geroboamo sarebbe morto, ma almeno sarebbe stato sepolto. Tutti gli altri sarebbero morti in modo ignominioso, diventando un monito per tutto Israele e per i popoli circostanti.

Perché sarebbero diventati un monito? Perché avevano rigettato Dio come loro Dio, seguendo invece le malvagità degli dèi delle altre nazioni, praticando persino attività religiose che davano l’apparenza di essere simili a quelle comandate da Dio, ma che erano false.

Dio distrusse completamente Geroboamo e la sua casa reale. E in molti modi, ciò che accadde a loro è molto simile a quanto la Scrittura descrive riguardo al ritorno di Gesù. Ci sarà ira e ci sarà giustizia, non solo per la disobbedienza verso Dio, ma soprattutto per la ribellione di aver messo noi stessi al posto di Dio. Quando scegliamo di fare ciò che riteniamo giusto secondo le nostre idee e i nostri piani, credendo di sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, sostituiamo Dio e la sua sovranità sulla nostra vita con il nostro progetto. Diventiamo i nostri propri dèi e finiamo per adorare noi stessi. Questo lo vediamo nelle nostre società e in tutto il mondo ancora oggi, così come l’uomo ha fatto fin dall’inizio.

L’ira che Dio un giorno riverserà su di noi sarà frutto delle nostre stesse scelte, proprio come lo fu per Geroboamo. Ma c’è una buona notizia. Quando diciamo che siamo “salvati” da Cristo, intendiamo che siamo salvati da quest’ira che verrà. Se ci pentiamo di questo peccato di ribellione e torniamo a Dio, ponendo la nostra fede nel sacrificio di Gesù, anche noi possiamo essere salvati dall’ira futura. Possiamo invece vivere con Lui.

Ma significa anche riconoscere Gesù stesso come Re su tutto. Gesù è il Re nel regno di Dio. Non siamo più re di noi stessi, ma siamo il suo popolo. Dobbiamo guardare a Lui affinché possiamo essere salvati dall’ira imminente che spazzerà via ogni male fino a che non ne rimanga più nulla.

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Non so come comportarmi

Quando Salomone salì al potere come re d’Israele, una delle principali cose per cui è ricordato è il fatto di aver chiesto a Dio la saggezza. Dio, infatti, lo elogiò per non aver chiesto ricchezze o una lunga vita, ma piuttosto discernimento su come essere un buon re, su come governare bene il suo popolo.

Ma prima ancora di chiedere la saggezza, potremmo chiederci: da dove ha preso Salomone la saggezza per chiedere la saggezza? Qual è stata la motivazione principale che lo ha spinto a chiedere questo, invece che ricchezze? O fama o potere?

La motivazione principale di Salomone, la ragione per cui chiese saggezza, fu il suo senso di umiltà nel momento in cui salì sul trono d’Israele. L’umiltà di Salomone, nel riconoscere di non sapere come governare bene il suo popolo, lo spinse a chiedere la saggezza. Chiese a Dio saggezza e discernimento perché voleva svolgere bene il compito per il quale era stato chiamato.

Ora, o SIGNORE, mio Dio, tu hai fatto regnare me, tuo servo, al posto di Davide mio padre, e io sono giovane e non so come comportarmi. Io, tuo servo, sono in mezzo al popolo che tu hai scelto, popolo numeroso, che non può essere contato né calcolato tanto è grande.

1 Re 3:7-8

Prendere buone decisioni comincia con un atteggiamento di umiltà. Comincia con il riconoscere sinceramente che non sappiamo tutto. Comincia con la comprensione che, anche se possediamo una certa conoscenza, potremmo non avere l’esperienza necessaria per sapere quali siano i passi giusti da compiere. Potremmo non avere la comprensione per sapere quale sia la direzione giusta da seguire.

E dobbiamo, ovviamente, considerare quanto questo sia diverso dal modo in cui il mondo normalmente guida. Quante volte noi, pur sapendo poco, cerchiamo di far credere agli altri di sapere esattamente cosa fare? Sentiamo dentro di noi che non sappiamo nulla, ma davanti agli altri cerchiamo di fare buona impressione e di far credere loro che sappiamo quello che stiamo facendo.

Credo che questo sia al centro del motivo per cui Gesù venne predicando che dobbiamo ravvederci e credere. Il ravvedimento inizia con un cuore umile. Inizia con una comprensione profonda del fatto che abbiamo sbagliato e che non sappiamo quali passi compiere per andare avanti. Il ravvedimento abbandona l’orgoglio e pone invece la nostra dipendenza su Dio.

Questo è ciò che stava facendo Salomone. Non si stava necessariamente ravvedendo, ma stava pienamente riconoscendo il suo bisogno di Dio. Riconosceva che gli era stata affidata una responsabilità che non sapeva come adempiere. Aveva bisogno della saggezza e della guida di Dio. E questo è ciò di cui anche noi abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno della saggezza di Dio. Abbiamo bisogno della sua guida, abbandonando il nostro orgoglio e riconoscendo che tutto ciò che abbiamo e tutto ciò di cui abbiamo bisogno viene da lui.

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Il quale mi ha stabilito, mi ha concesso il trono

Salomone riuscì a vedere chiaramente che era stata la mano di Dio a metterlo sul trono di Davide. Adonia, un altro figlio di Davide e fratellastro di Salomone, aveva tentato di radunare attorno a sé un gruppo di leader per cercare di prendere il potere come prossimo re d’Israele. Ma non era reale. Era una regalità finta. Una leadership fasulla.

Salomone, però, sapeva che era stato Dio stesso a porlo sul trono. Era stato nominato legittimamente da Davide come successore, come prossimo re.

Eppure, Salomone fu misericordioso. Permise ad Adonia di vivere. Se Adonia fosse rimasto leale al re, a Salomone, gli sarebbe stato permesso di rimanere e vivere nel regno. Altrimenti, sarebbe stata la sua fine.

Adonia, però, non riusciva a togliersi dalla testa l’idea di diventare re. Continuava a pensare a modi per introdursi nel palazzo, per trovare un modo di arrivare in cima. Fece una richiesta a Salomone tramite Betsabea, la madre di Salomone: voleva che gli fosse concessa in moglie Abisag.

Ma Salomone capì subito la vera natura della richiesta. Sapeva che non si trattava di amore per Abisag. Era una manovra di potere.

Abisag, pur non avendo avuto rapporti con il re, era stata scelta come una sorta di concubina per Davide, per giacere con lui e tenerlo caldo negli ultimi giorni della sua vita. In Israele, in quel tempo, prendere le concubine del re era un segno di potere, di usurpazione del trono, proprio come fece Assalonne con le concubine di Davide quando prese possesso del palazzo. Davide, lasciando Gerusalemme, lasciò indietro le sue concubine e una delle prime azioni di Assalonne fu quella di giacere con esse in una tenda davanti a tutta Gerusalemme.

Salomone comprese ciò che Adonia stava tentando di fare e, nonostante la misericordia che gli aveva mostrato in precedenza dandogli la possibilità di essere leale, ora agì con decisione e chiarezza morale. Sapeva che Dio gli aveva dato il trono e il ruolo di stabilire la pace in Israele:

E ora, com’è vero che vive il SIGNORE, il quale mi ha stabilito, mi ha concesso il trono di Davide mio padre, e mi ha fondato una casa come aveva promesso, oggi Adonia sarà messo a morte!

1 Re 2:24

Personalmente, ho fatto fatica a capire cosa stesse succedendo a Davide negli ultimi anni del suo regno su Israele. In precedenza, prima di decidere di lasciare che i suoi eserciti andassero in guerra senza di lui e di restare a Gerusalemme, dove avrebbe preso Betsabea, la moglie di Uria, per poi far uccidere Uria, sembrava parlare e agire con una sicurezza che solo Dio poteva dargli. Ma dopo la sua caduta con Betsabea e l’omicidio di Uria, Davide sembra perdere chiarezza di pensiero. Non ha più una visione chiara di ciò che Dio lo aveva chiamato a fare come guida d’Israele. Non riesce più a vedere oggettivamente cosa dovrebbe fare.

Di conseguenza, il figlio nato dal suo rapporto con Betsabea morì.

Di conseguenza, Davide non rimproverò né punì Amnon per aver violentato sua sorella Tamar.

Di conseguenza, Assalonne uccise Amnon e mirò a diventare re al posto di Davide.

Di conseguenza, Davide abbandonò il trono e la città di Gerusalemme per lasciare entrare Assalonne.

Di conseguenza, il regno di Davide finì in guerra, ma Davide non voleva che Assalonne, in ribellione al legittimo re d’Israele, fosse ucciso.

E infine, di conseguenza, anche Adonia pensò di poter prendere il trono, causando ulteriori divisioni, morte e distruzione.

Tutto questo fu il risultato del distacco di Davide da Dio e della sua disponibilità a fare tutto ciò che voleva. Dormì con chi voleva. Uccise chi voleva per coprire i suoi peccati sessuali.

La mia inclinazione è sempre stata quella di vedere Davide alla luce del fatto che Dio disse di lui che era un uomo secondo il suo cuore. Doveva essere uno dei “buoni”. E credo che sia vero. Era uno dei buoni. A un certo punto, uno dei migliori. Prima che cominciasse a vivere secondo il proprio prestigio e potere, agiva sicuramente secondo il cuore di Dio. Per questo ho cercato di vedere anche la sua mancata correzione di Amnon e il suo amore per Assalonne alla luce di questa bontà.

Ma ora, capendo la chiarezza con cui Salomone agì, la lucidità con cui vedeva la realtà e prendeva decisioni contro Adonia e gli altri che lo avevano sostenuto, credo di essere pienamente convinto che Davide aveva davvero perso la strada. Salomone vedeva la mano e la volontà di Dio nel modo in cui gli era stato dato il trono d’Israele e parlava e agiva con una chiarezza simile a quella che Davide aveva prima del punto di svolta del suo peccato con Betsabea e Uria. Salomone, in quel momento, non era ancora stato travolto dalla sua stessa arroganza, dal suo ego esaltato dalle ricchezze e dal potere, quindi vedeva ancora con la chiarezza che Dio gli dava. Capiva chiaramente che Dio voleva che fosse re su Israele, e così agiva e prendeva decisioni con questa consapevolezza.

Le radici del peccato possono essere difficili da identificare completamente. Nel caso di Davide, credo che il suo peccato non fu solo l’aver dormito con Betsabea e l’aver ucciso Uria. Certo, furono peccati gravi e segnarono la sua caduta, ma erano i sintomi esteriori di una realtà interiore. A un certo punto, l’orgoglio di Davide lo portò a pensare che fosse accettabile chiamare a sé Betsabea e giacere con lei. Il suo orgoglio lo portò a credere che fosse lecito mandare Uria a morire, uccidendolo intenzionalmente, causando anche la morte di altri.

È lo stesso tipo di inganno che colpì Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden. Sembrava che fossero stati puniti per aver mangiato un frutto. Ma cosa stava succedendo veramente? Avevano creduto che sarebbero diventati come Dio, avendo essi stessi la “conoscenza” del bene e del male. In altre parole, pensavano di poter decidere da soli cosa fosse giusto e sbagliato. Così, a causa del loro orgoglio e del desiderio di non essere più governati da Dio, mangiarono il frutto e i loro occhi si aprirono.

Questo è l’orgoglio con cui Davide fu ingannato, ed è lo stesso orgoglio contro cui dobbiamo ricordarci di lottare. Dobbiamo comprendere le lezioni dell’orgoglio e il desiderio di essere i nostri propri “dèi”, decidendo da soli cosa è giusto e cosa è sbagliato. Forse non siamo re, ma nel nostro piccolo mondo d’influenza possiamo prendere decisioni piene di orgoglio che ci allontanano dal piano di Dio per le nostre vite.

Invece, prego che, per me stesso, io possa rimanere attaccato alla vite, come dice Gesù in Giovanni 15. Prego di rimanere unito a lui, la vera fonte della vita. Prego di comprendere pienamente la mia relazione con lui: che lui è Dio, l’unico vero Dio sopra tutte le persone e tutte le cose. Prego che la mia vita continui a glorificarlo, non scegliendo da solo cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma vivendo per lui al di sopra di tutto, e in questo modo, avrò una guida per la mia vita, come l’ebbero sia Davide che Salomone prima che il loro orgoglio li allontanasse dal piano di Dio.

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Poiché ami quelli che ti odiano

Natanaele era andato da Davide e gli aveva profetizzato dopo il peccato di Davide con Betsabea e il successivo omicidio di Uria. Gli disse che dalla sua stessa casa, Dio avrebbe portato calamità. Infatti, scopriamo che la calamità colpisce Davide, ma si estende anche al resto della sua famiglia e persino a tutto Israele. Le conseguenze del peccato di Davide si irradiarono davvero e non riguardarono solo lui, ma tutti coloro su cui aveva influenza.

Assalonne era il figlio di Davide. Aveva ucciso suo fratello Amnon, vendicando ciò che Amnon aveva fatto quando aveva violentato sua sorella Tamar. Ma Davide non prese mai una posizione. Non fece mai giustizia su Amnon né, successivamente, su Assalonne per aver ucciso suo fratello. Così la calamità non si fermò con lo stupro di Tamar da parte di Amnon, ma continuò con Assalonne che uccise Amnon e arrivò persino a credere che Davide potesse essere sostituito a causa della leadership impotente che vedeva in suo padre.

Assalonne si vedeva crescere in Giuda e poteva persino immaginarsi di sostituire suo padre come re su tutto Israele.Assalonne iniziò ad agire secondo questa visione di sé e iniziò a proclamarsi re. Era estremamente presuntuoso, ovviamente, ma Davide lo permise! Infatti, mentre Assalonne cresceva in potere con seguaci aggiuntivi, Davide si trasferì persino dal suo palazzo, lasciando spazio ad Assalonne per entrare. Come re, Davide aveva completamente perso la sua strada. Non era più l’uomo chiamato a essere re. La sua vita non assomigliava più a quella che aveva vissuto in precedenza, adorando Dio davanti a tutto il popolo, lodando il Signore per ciò che aveva fatto. Invece, era caduto molto in basso, abbandonando l’identità che Dio gli aveva conferito come leader di Israele.

Davide alla fine andò in guerra contro Assalonne, ma diede istruzioni al suo esercito di riportare Assalonne sano e salvo. Pensateci… le istruzioni di Davide erano di andare in guerra contro coloro che lo avevano tradito, il re, ma di non uccidere colui che guidava il tradimento. Proteggere colui che guidava la rivoluzione.

L’esercito, ovviamente, non lo fece. Potevano vedere chiaramente cosa stava accadendo nel regno, la rivolta in corso. Così, quando Ioab, il capo degli eserciti di Davide, vide l’opportunità di uccidere Assalonne, la colse, e si assicurò che Assalonne fosse morto, che la minaccia fosse eliminata. Dal punto di vista di Ioab, voleva assicurarsi che non ci fosse più una minaccia al regno di Davide. Aveva già visto il suo re allontanarsi dal suo stesso palazzo, rinunciando al suo trono. Non lo avrebbe più sopportato, e così trafisse Assalonne con la sua lancia e quelle dei suoi scudieri.

Ma quando Ioab tornò dal re, invece di trovare Davide che gioiva e celebrava la vittoria del suo esercito, trovò Davide che piangeva per la morte di Assalonne. E il risultato fu che l’esercito dovette rientrare in città sotto il velo della notte. L’esercito dovette tornare in vergogna perché Davide, il leader del regno, aveva perso la sua strada, aveva perso tutta la sua chiarezza riguardo alla sua identità, a chi Dio lo aveva chiamato a essere e a cosa lo aveva chiamato a fare. Non stava più guidando il suo regno, ma piangeva invece per coloro che lo avevano tradito.

Così Ioab rispose a Davide:

Tu copri oggi di rossore il volto di tutta la tua gente, che in questo giorno ha salvato la vita a te, ai tuoi figli e alle tue figlie, alle tue mogli e alle tue concubine, poiché ami quelli che ti odiano e odi quelli che ti amano; infatti oggi tu dimostri che capitani e soldati per te non contano nulla; ora vedo bene che se oggi Absalom fosse vivo e noi fossimo tutti morti, allora saresti contento. Àlzati dunque ora, esci e parla al cuore della tua gente; perché io giuro per il SIGNORE che, se non esci, neppure un uomo resterà con te questa notte; e questa sarà per te sventura peggiore di tutte quelle che ti sono cadute addosso dalla tua giovinezza fino a oggi.

2 Samuele 19:5-7

È una storia estremamente triste vedere la caduta di Davide, vederlo affrontare un problema dopo l’altro, vederlo perdere la sua strada, perdere la sua identità. A causa del suo peccato, non riesce più a vedere chi è stato chiamato a essere, quindi, invece di guardare al Signore per trovare la sua identità, per trovare la sua forza come faceva una volta, ora giudica ciò che dovrebbe fare usando il suo ragionamento. Prende decisioni basate sulle sue idee, usando la sua bussola morale. Non agisce più veramente come un re su un regno, ma invece come un uomo che pensa solo alla politica interna della sua famiglia frammentata.

Leggendo questa storia stamattina e considerando la vita di Davide come una potenziale metafora, devo dire che mi ha fatto pensare alla Chiesa in alcuni modi. Ammetto che il confronto che sto per fare potrebbe essere forzato ed è basato su alcuni eventi recenti che ho vissuto personalmente, quindi potrebbero esserci emozioni legate al mio collegamento della caduta di Davide alle sfide che la Chiesa di oggi sta affrontando, ma voglio raccontare questa storia come una da considerare almeno.

Recentemente ho guidato un gruppo attraverso una lezione di formazione relativa al battesimo. Come squadra, guidiamo regolarmente nuovi credenti attraverso una serie di lezioni relative ad alcuni degli insegnamenti fondamentali di Cristo, insegnando a questi nuovi credenti a seguire Gesù in base a ciò che ci ha detto di fare. Gesù disse ai suoi discepoli che se lo amavano, avrebbero obbedito ai suoi comandi, quindi lo prendiamo sul serio. Il primo e più importante comando è amare Dio con tutto il nostro cuore, anima, mente e forza, quindi se Gesù dice che se lo amiamo, dobbiamo obbedirgli, allora la prima cosa che dovremmo fare con i nuovi credenti è insegnare loro a fare ciò che ha detto di fare.

Insegnando a questo gruppo, ho spiegato che ci sono una serie di lezioni che vogliamo far seguire ai nuovi credenti quando insegniamo loro a seguire Gesù. Sono queste:

  • Ravvedersi e credere
  • Battesimo
  • Amare (amare Dio, amare il prossimo come se stessi)
  • Dimorare in Cristo
  • Fare discepoli
  • Pregare
  • La Cena del Signore

Ovviamente queste non sono tutte le lezioni che dobbiamo imparare e mettere in pratica per imparare a seguire Cristo. Ce ne sono molte, molte altre, ma queste sono alcuni punti da cui possiamo iniziare. Questo è l’inizio. Sono i primi passi, e facendo queste cose, possiamo riunire i credenti in chiese basate su una comprensione comune di chi è Gesù, un raduno che permetterà loro di crescere in Cristo, aiutandosi a vicenda a seguirlo sempre di più.

Da questa lista di lezioni, ho scelto la lezione sul battesimo come esempio da usare nella nostra discussione. So che questa lezione ha la possibilità di sfidare veramente coloro che partecipano, e a essere onesti, la mia speranza è di sfidare un po’ il pensiero delle persone.

Perché?

Perché qui abbiamo un comando di Gesù:

Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente.

Matteo 28:18-20

Gesù non dà mai un comando a nessuno che debba essere battezzato, ma è interessante notare che dà effettivamente ai suoi discepoli un comando di battezzare altre persone. Ovviamente, ciò implica naturalmente che dobbiamo anche essere battezzati, ma se siamo completamente chiari su ciò che Gesù dice, sta dicendo ai suoi discepoli di battezzare altre persone. Questo è uno dei primi passi per diventare un discepolo di Gesù.

Tuttavia, non è l’ultimo passo. Infatti, Gesù continua dicendo che dobbiamo insegnare loro a obbedire a tutto ciò che ha comandato. Come persone che seguono Gesù, dobbiamo fare discepoli. E qual è la definizione di fare un discepolo? Secondo Gesù, lo leggerei così:

Prima, battezzateli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Poi, insegnate loro a obbedire a tutto ciò che ha comandato.

Eppure una delle cose che ci ha comandato di fare, direttamente in questo passaggio, è battezzare altre persone. L’ha appena detto! Quindi cosa significa? Significa che non solo dovremmo essere battezzati, ma dovremmo anche battezzare altre persone.

Se fai parte di una chiesa più tradizionale o hai un background in una chiesa più tradizionale, potresti già capire perché questa lezione potrebbe essere impegnativa per i credenti in chiese simili. Possiamo riassumerlo con questa domanda: Quante volte ci viene insegnato a obbedire al comando di Gesù di battezzare altre persone?

Quasi mai, se mai.

Infatti, nel gruppo che stavo facilitando, ho chiesto se qualcuno fosse mai stato insegnato a battezzare un’altra persona. Una mano tra il gruppo. OK, va bene, nessun problema… almeno per ora. Impariamo a farlo.

Ricorda… “Insegnate loro a obbedire a tutto ciò che vi ho comandato…”, disse Gesù.

Quindi insegneremo loro a obbedire. Impareremo a battezzare altre persone.

Il modo in cui lo facciamo, quindi, è praticare. Nella lezione, abbiamo imparato cos’è il battesimo. Abbiamo imparato chi dovrebbe essere battezzato. Abbiamo imparato perché dovrebbero essere battezzati e come dovrebbero essere battezzati. Quindi ora, vogliamo applicare ciò che abbiamo imparato e fare effettivamente un gioco di ruolo per un battesimo prima di andare in acqua in modo da sapere cosa aspettarci e come funzionerà. Abbiamo scoperto che questo è utile sia per la persona che sarà battezzata sia per una nuova persona che battezzerà un’altra persona. Per farlo, mettiamo qualcuno su una sedia di lato e una persona pratica il battesimo dell’altra persona.

“Insegnate loro a obbedire a tutto ciò che vi ho comandato…”.

Tuttavia, quando siamo arrivati alla parte di praticare il battesimo, tre delle persone hanno deciso che non volevano farlo. Hanno detto che non erano sicuri di come si sentivano al riguardo. Volevano avere una visione più alta del battesimo, hanno detto.

Ora, mi fermo qui e dico che non voglio necessariamente incolpare le persone che erano lì quel giorno. Invece, la mia preoccupazione, e quindi la mia domanda, è questa: Perché è la prima volta che uno di questi cristiani di lunga data ha imparato a battezzare? Perché dovrebbe sembrare strano a qualcuno di loro? Perché lo metterebbero in discussione?

Credo che la risposta a questa domanda sia che abbiamo creato una tradizione che pone i leader in una posizione all’interno delle nostre chiese che rimuove, o almeno neutralizza, l’identità degli altri che sono nella chiesa. Cosa significa? Significa che, invece di equipaggiare e potenziare le persone all’interno della chiesa per diventare pienamente i discepoli di Cristo che erano destinati a essere, abbiamo invece tolto o riservato certi “riti” religiosi ai credenti, il che impedisce ai credenti di adempiere effettivamente ai comandi di Cristo.

Lasciatemelo dire di nuovo:…

che impedisce ai credenti di adempiere ai comandi di Cristo.

Sebbene ci siano molti altri esempi, un esempio è questa questione del battesimo. Come mi ha chiesto ripetutamente un uomo africano dopo che gli ho dato questa lezione: Chi può battezzare un’altra persona?!? Stai dicendo che io posso battezzare? Non ci credo… Devo chiamare il mio pastore perché battezzi la persona.

E dov’era il suo pastore? In Africa.

E dov’era lui? A migliaia di chilometri di distanza in Europa.

Cosa aveva imparato quest’uomo nella sua chiesa? Sia attraverso l’insegnamento diretto sia per deduzione dalla pratica e dalla mancanza di insegnamento a seguire i comandi che Gesù aveva dato ai suoi discepoli, era giunto alla conclusione che non poteva battezzare un’altra persona. No, invece, doveva portare quelle persone dal suo pastore.

Ha rifiutato di seguire il comando di Gesù di battezzare altre persone perché la tradizione e la pratica della sua chiesa prevedevano che solo il pastore, e solo il pastore, potesse insegnare a qualcun altro su Gesù o battezzare un’altra persona.

Ricevo regolarmente lo stesso tipo di opposizione riguardo alla Cena del Signore, e infatti, una delle persone che si rifiutò di imparare a mettere in pratica il battesimo quel giorno disse la stessa cosa: Penso lo stesso della Cena del Signore. Non voglio avere una visione bassa della Cena del Signore.

Per rispondere, io e il nostro team abbiamo una visione estremamente alta del battesimo e della Cena del Signore. Così alta, infatti, che crediamo sia importante che ogni discepolo sia equipaggiato per farlo perché Gesù ci ha chiamato a farlo.

Leggendo di Davide questa mattina e rendendomi conto di quanto fosse caduto in basso, così come degli effetti che vediamo del suo peccato propagarsi al resto della sua famiglia e al resto di Israele, non potevo fare a meno di tracciare un collegamento nella mia mente con lo stato della Chiesa in cui viviamo oggi. Le Scritture insegnano che c’è un solo Capo per la Chiesa, ed è Gesù stesso. E il Capo della Chiesa ha insegnato cosa dovremmo fare, tutti noi, per amarlo. E cioè, dovremmo tutti obbedirgli, facendo ciò che ci ha chiamato a fare.

Eppure cosa abbiamo fatto invece? Abbiamo creato diversi livelli di autorità prima di poter raggiungere il vero capo. Spesso creiamo capi titolari nelle nostre chiese. Poi abbiamo livelli di supervisione all’interno delle nostre denominazioni. E abbiamo denominazioni con consigli e presidenti che guidano vari distretti e regioni di chiese. Inoltre, abbiamo scuole a cui mandiamo coloro che saranno i leader, qualificandoli e concedendo loro, e spesso solo a loro, l’autorità con un certificato basato sul tempo che hanno trascorso in quell’istituzione.

In molti modi, posso capire i livelli organizzativi mentre le denominazioni cercano di sostenere le singole chiese locali. Tuttavia, dovremmo chiederci… Qual è il frutto? Se possiamo giudicare i risultati come disse Gesù – Li riconoscerete dai loro frutti – la domanda è questa: Stiamo producendo discepoli che seguono pienamente Gesù, come ha detto, o stiamo producendo frutti che seguono principalmente le nostre tradizioni? Stiamo rafforzando il fatto che Gesù è il Capo della chiesa e che ciascuno di noi – tutti noi – è parte del suo corpo? O stiamo imponendo la struttura organizzativa che abbiamo creato?

Davide è caduto molto a causa del suo peccato, e di conseguenza, si è allontanato molto dall’identità che Dio gli aveva conferito e la calamità gli è venuta dall’interno della sua famiglia. Davide avrebbe dovuto riconoscere il suo peccato e pentirsi continuamente e rivolgere il suo cuore a Dio.

In modo simile, nella Chiesa oggi, ognuno di noi deve lasciare i propri regni, le nostre idee che la nostra identità provenga da chiunque altro oltre a Cristo stesso e invece guardare a Dio e al nostro unico, singolo re. Il Capo sulla chiesa: Gesù stesso. Le autorità sono semplici: Sentiamo Cristo solo attraverso la parola di Dio e attraverso lo Spirito Santo.

Se ciascuno di noi lo farà, dovremmo iniziare a insegnare ed equipaggiare discepoli all’interno delle nostre chiese che siano in grado di portare il Vangelo del regno a tutte le nazioni, proprio come Gesù disse che sarebbe accaduto prima che venga la fine. Ma senza questo equipaggiamento, senza leader che siano disposti a insegnare alle persone all’interno delle loro chiese a obbedire pienamente a tutto ciò che Gesù ci ha insegnato, languiremo dove siamo oggi, continuando a vedere calamità venire dall’interno della nostra stessa famiglia, proprio come vediamo accadere in molti modi diversi attraverso il corpo più ampio di Cristo anche oggi.

Che Cristo abbia misericordia di tutti noi e ci insegni attraverso la sua parola e attraverso lo Spirito Santo ad aiutare gli altri a seguire pienamente Gesù, mettendo in pratica tutto ciò che ci ha comandato di fare.

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Io farò venire addosso a te delle sciagure dall’interno della tua stessa casa

Ci sono delle conseguenze per il nostro peccato, e comprendere tali conseguenze ci aiuta persino a capire la situazione del mondo in cui ci troviamo oggi. La storia di Davide ci mostra un microcosmo, un esempio delle conseguenze del peccato, mentre queste continuano a propagarsi lungo il corso del tempo.

Dopo il peccato di aver giaciuto con Betsabea e aver mandato Uria a morire, Natan riferisce a Davide le parole di Dio: la sua rovina continuerà, provenendo persino dalla sua stessa casa:

Così dice il SIGNORE: “Ecco, io farò venire addosso a te delle sciagure dall’interno della tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu lo hai fatto in segreto; ma io farò questo davanti a tutto Israele e in faccia al sole”».

2 Samuele 12:11-12

Dio perdona Davide, ma le conseguenze del suo peccato rimangono. Il figlio nato da Betsabea muore poco dopo, ma la calamità non finisce lì. Amnon, il primogenito di Davide ed erede al trono, violenta la sua sorellastra Tamar. Davide esita e non punisce Amnon come richiesto dalla legge, così Absalom, un altro figlio di Davide e fratello pieno di Tamar, si vendica di Amnon per l’inazione del padre, facendo uccidere Amnon dai suoi servitori davanti agli altri figli di Davide.

Absalom fugge quindi a Ghesur, nell’attuale regione delle Alture del Golan, per tre anni per sfuggire alla giustizia del padre. Ma Davide continua nella sua inazione finché Ioab non manda una donna per convincere il re a permettere ad Absalom di tornare. Tuttavia, nonostante il ritorno a Gerusalemme, Davide non permette ad Absalom di presentarsi a lui e riconciliarsi. Questa distanza contribuirà al continuo ciclo distruttivo, mentre la famiglia di Davide si autodistrugge dall’interno a causa della disfunzione generata dalle conseguenze del suo peccato.

In passato, Davide aveva agito come un uomo secondo il cuore di Dio. Crescendo nel ruolo di re che Dio aveva preparato per lui, avevamo visto saggezza, coraggio, un desiderio sincero di onorare Dio e adorarlo davanti a tutto Israele. Davide era un re, ma un re che guidava Israele sotto l’autorità di Dio.

Ora, però, Davide ha superato un limite ed è diventato come tutti gli altri re. Il suo desiderio di governare senza timore del Signore lo porta ad allontanarsi da Dio e dalla sua autorità. Davide sembra voler regnare secondo le proprie regole, secondo i propri capricci e desideri, e questo cambiamento lo porta a peccare direttamente con Betsabea e Uria, ma anche a sperimentare la rovina della propria casa che inizia a consumarsi e distruggersi dall’interno.

Esistono conseguenze naturali al nostro peccato che dobbiamo riconoscere e accettare. Dio è un Dio misericordioso e pieno di grazia, ricco di amore per il suo popolo e paziente, affinché possiamo avvicinarci a lui attraverso Gesù.

Tuttavia, ogni nostra azione porta con sé delle conseguenze, sia per noi, sia per gli altri, o per entrambi. Dio ci dona il suo Spirito affinché possiamo agire secondo il meglio che Egli ha da offrirci: azioni basate sull’amore per lui e per il prossimo, azioni piene di gioia e pace. Questi sono alcuni dei frutti dello Spirito.

Ma quando pecchiamo, ci allontaniamo dal meglio che Dio ha per noi. Falliamo, non solo per noi stessi, ma anche nell’opportunità di glorificare Dio. E così, quelle azioni portano conseguenze, sia nel breve periodo che nel corso della nostra vita. La responsabilità e le conseguenze di tali azioni, nonostante la grazia e la misericordia di Dio, ricadono comunque su di noi e spesso si irradiano anche verso gli altri.

Camminiamo dunque secondo lo Spirito di Dio, e non allontaniamoci per decidere da soli cosa sia bene o male. Invece, guardiamo a Lui, a ciò che ha da dire e da insegnarci, perché le conseguenze delle nostre azioni, se fondate sulla sua guida, porteranno beneficio a noi e gloria a Dio.

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Colui che ha fatto questo merita la morte

Quante volte finiamo per indignarci verso gli altri, quando in realtà siamo noi stessi a compiere le stesse cose o cose simili? I peccati degli altri sono spesso sulle nostre labbra, mentre quelli che commettiamo noi raramente vengono ammessi, per non parlare del pentimento.

Davide aveva preso la moglie di Uria, l’aveva messa incinta e poi aveva mandato Uria in guerra affinché venisse ucciso, così da coprire il proprio peccato. Eppure, quando Natan andò da Davide per confrontarlo riguardo a ciò che aveva fatto, Davide si indignò contro l’uomo ricco della storia inventata da Natan, che aveva preso l’agnella dell’uomo povero per darla in pasto a un viandante di passaggio.

Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: «Com’è vero che il SIGNORE vive, colui che ha fatto questo merita la morte

2 Samuele 12:5

L’ira di Davide ardeva contro quell’uomo ricco fittizio. Era indignato per il peccato di un altro, mentre allo stesso tempo lui stesso non solo aveva preso l’“agnella” – la donna, Betsabea – ma anche la vita stessa di Uria.

Tutto questo per dire che dobbiamo imparare, prima di tutto, a esaminare noi stessi. Invece di guardare agli altri come se fossero gli unici a peccare e a dover essere biasimati, cominciamo noi stessi con umiltà e pentimento.

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C’è ancora qualcuno?

Davide e Gionatan avevano un’amicizia profonda e duratura, sancita da un giuramento di reciproca lealtà, nonostante i loro regni fossero in contrasto tra loro. Saul, il padre di Gionatan, fu il primo re d’Israele, mentre Davide sarebbe diventato il secondo. Dio aveva scelto Davide come re, un uomo che avrebbe portato nel cuore il sentimento stesso di Dio per il suo popolo.

Nonostante Davide avesse riportato molte vittorie sui suoi nemici e avesse saldamente stabilito il suo regno su Israele, non aveva dimenticato il giuramento fatto a Gionatan. Egli rimase leale alla casa di Saul a causa del suo legame con Gionatan, e per questo, molto tempo dopo la morte in battaglia di Saul, di Gionatan e dei suoi altri fratelli, Davide si informò se ci fosse ancora qualcuno della loro famiglia, ricordandosi del giuramento fatto a Gionatan.

Davide disse: «C’è ancora qualcuno della casa di Saul, al quale possa fare del bene per amore di Gionatan?»

2 Samuele 9:1

Davide venne a sapere che c’era ancora una persona: un figlio di Gionatan che viveva in una piccola città. Era zoppo a entrambi i piedi e non era in grado di camminare. La sua famiglia era stata distrutta e disonorata, e lui era stato abbandonato. Eppure Davide lo chiamò, lo restaurò alla mensa reale in un posto d’onore, e gli restituì tutte le terre che in origine erano appartenute alla sua famiglia nel regno di Saul.

La grazia, la misericordia e la lealtà di Davide sono straordinarie. Era il re, il suo regno era ben consolidato, eppure non solo mostrò grazia alla famiglia dell’ex re, ma elevò persino lo status di Mefiboset invitandolo alla mensa reale. Mefiboset non aveva nulla da offrire a Davide. Non poteva nemmeno camminare. Ma Davide lo sollevò e lo onorò comunque, per amore della sua amicizia con Gionatan.

Questo è uno dei motivi per cui Dio disse che Davide era un uomo secondo il suo cuore. Gli uomini comuni, che pensano prima di tutto a se stessi — e spesso solo a se stessi — tendono a voler distruggere completamente i propri nemici. I re non offrono grazia ad altri re: vogliono assicurarsi che il loro regno sia sicuro e perciò cancellano ogni traccia dei sovrani precedenti. Ma Davide non lo fece. Invece, onorò il suo giuramento di lealtà e visse secondo ciò che aveva promesso.

In modo simile, Dio fa lo stesso con ciascuno di noi. In un certo senso, siamo tutti come Mefiboset. Spiritualemente parlando, siamo zoppi. Non siamo in grado di camminare. Davanti a Dio, non possiamo stare in piedi. Siamo stati resi inabili dal nostro stesso peccato.

Eppure Dio ci chiama alla sua mensa. Gesù dice che un giorno siederemo con lui a quella tavola, come persone che sono state ricordate, che hanno ricevuto grazia e misericordia. Dio rimane fedele al suo patto: il nuovo patto sigillato con il sangue di Cristo. Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo, e come Mefiboset nel regno di Davide, anche noi siamo stati invitati nel regno di Dio.

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Il Signore ha agito come aveva annunciato

Il regno di Saul su Israele fu un regno pieno di contraddizioni. Egli cercava di eseguire i comandamenti di Dio, ma non riusciva mai a portarli a compimento del tutto. Non obbediva completamente a ciò che Dio gli aveva comandato di fare. Questo divenne la sua rovina e la ragione per cui Dio ritirò la sua presenza da Saul, dando invece il regno a Davide, che avrebbe servito il Signore con tutto il cuore.

Un esempio di ciò si vede verso la fine del regno di Saul. Ci viene detto che aveva scacciato dal paese tutti i medium e gli spiritisti. Questo era giusto, perché il popolo d’Israele era stato comandato di non praticare queste arti spirituali malvagie, come facevano invece le nazioni circostanti. Le altre popolazioni si rivolgevano ai medium e arrivavano perfino a sacrificare i propri figli a questi “dei” pagani nel tentativo di ottenere il loro favore. Ma Israele doveva essere un popolo santo, appartato per Dio, servendolo soltanto e non seguendo quelle stesse pratiche.

Eppure, quando Dio non rispose a Saul mentre i Filistei si stavano preparando ad attaccare Israele, cosa fece Saul? Cercò un medium che gli permettesse di parlare con Samuele! Proprio quella stessa cosa che sapeva di non dover fare, e contro cui lui stesso aveva agito giustamente come re, fu ciò che decise di fare.

Saul fu rigettato da Dio a causa della sua obbedienza parziale. Dio gli aveva precedentemente affidato il compito di distruggere completamente gli Amaleciti, ma anche in questo fallì. Risparmiò il re degli Amaleciti e gli animali migliori, animali che disse di voler sacrificare. Ma il profeta Samuele pose una domanda importante: Forse l’Eterno gradisce gli olocausti e i sacrifici come l’ubbidire alla voce dell’Eterno?

Saul serviva Dio con il cuore diviso. Riceveva l’istruzione da parte di Dio, ma la eseguiva a modo suo, secondo le proprie preferenze. Non serviva Dio completamente, facendo tutto ciò che Dio gli aveva detto. Non si consacrava interamente al Signore, come Dio richiedeva. Proprio come Samuele disse a Saul quando fu evocato tramite il medium:

Il SIGNORE ha agito come aveva annunciato per mezzo di me; il SIGNORE ti strappa di mano il regno e lo dà a un altro, a Davide, perché non hai ubbidito alla voce del SIGNORE e non hai lasciato sfogare la sua ira ardente contro Amalec; perciò il SIGNORE ti tratta così oggi. Assieme a te il SIGNORE darà anche Israele nelle mani dei Filistei, e domani tu e i tuoi figli sarete con me; il SIGNORE darà anche l’accampamento d’Israele nelle mani dei Filistei.

1 Samuele 28:17-19

Dio avrebbe tolto il regno a Saul e lo avrebbe dato a Davide. Avrebbe permesso che l’esercito d’Israele fosse sconfitto dai Filistei; Saul sarebbe stato sconfitto e sia lui che i suoi figli sarebbero morti. E così accadde, proprio come il Signore aveva detto. Saul comprese che sarebbe morto entro le successive 24 ore, e in effetti, così fu.

Dio desidera tutto il nostro cuore. Vuole che ci doniamo completamente a Lui. È per questo, ad esempio, che Gesù disse al giovane ricco di vendere tutto ciò che possedeva, darlo ai poveri e seguirlo. Senza donargli tutto il nostro cuore, non possiamo ereditare la vita eterna. Senza donargli tutto il nostro cuore, non possiamo veramente conoscerlo. Questa è la lezione che Saul ha imparato. È la stessa lezione che ha imparato il giovane ricco. Ed è la stessa lezione che dobbiamo imparare anche noi: Dio vuole tutto di noi. Senza eccezioni, senza riserve, senza trattenere nulla. Che Dio ci aiuti e ci insegni a donare a Lui tutta la nostra vita, tutto noi stessi.

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Io non ti farò più alcun male

Saul continuava a perseguitare Davide, nonostante avesse già chiesto perdono per i suoi precedenti tentativi di trovarlo e ucciderlo. Davide era stato unto come prossimo re d’Israele, ma Saul non era pronto a rinunciare al suo trono e preferiva eliminare ogni minaccia futura al suo dominio su Israele.

Davide aveva scoperto che Saul si era accampato sul fianco di una collina insieme a tremila dei suoi uomini scelti, le “forze speciali” dell’esercito israelita. Saul era di nuovo sulle tracce di Davide, cercando ancora di ucciderlo per eliminare la minaccia che Davide rappresentava per il suo regno.

Questa volta, come avvertimento per Saul e per tutti i suoi uomini incaricati di proteggerlo, Davide prese la lancia e la brocca dell’acqua di Saul nel cuore della notte, mentre Saul e i suoi uomini dormivano. Poi, dopo aver chiamato Saul e i suoi uomini da una collina distante, Saul rispose con un’apparente pentimento:

Allora Saul disse: «Ho peccato; ritorna, figlio mio Davide; io non ti farò più alcun male, poiché oggi la mia vita è stata preziosa ai tuoi occhi; ecco, ho agito da stolto e ho commesso un grande errore».

1 Samuele 26:21

Dico che Saul rispose con un “apparente” pentimento perché ormai aveva cercato di uccidere Davide più volte. Saul invitava Davide a tornare da lui, ad abbracciarlo, a rientrare nel regno, ma Davide fu abbastanza saggio da non fidarsi delle sole parole. Se Saul si fosse veramente pentito, avrebbe interrotto la ricerca. Sarebbe tornato a governare il suo regno. Avrebbe lasciato in pace Davide. Davide aveva mostrato bontà verso Saul, rispettando per due volte il fatto che fosse l’unto del Signore, il re stabilito da Dio, e non lo aveva ucciso quando ne aveva avuto l’occasione.

Ma non fu questo ciò che fece Saul. Usò parole di pentimento, ma non lo dimostrò con le sue azioni. Nulla cambiò davvero. Il suo pentimento era vuoto. Se avesse potuto ucciderlo, lo avrebbe fatto. In effetti, Saul smise di cercare di uccidere Davide solo quando quest’ultimo andò a vivere tra i Filistei, il popolo nemico giurato degli Israeliti.

Davide non cadde nella trappola che Saul gli aveva teso. Restituì la lancia e la brocca dell’acqua, ma non tornò da Saul. Non lo abbracciò. Davide fu abbastanza saggio da vedere oltre un pentimento vuoto e non cambiò la sua vita ogni volta che Saul diceva di essere dispiaciuto. Davide aspettò di vedere il “frutto” del pentimento di Saul, un risultato concreto, ma questo risultato non arrivò mai. Saul non tornò mai davvero a Davide con un vero pentimento, e anche se questo ebbe un impatto su Davide e sulla sua vita, Davide non si comportò da stolto. Non credette alla menzogna secondo cui Saul fosse veramente pentito, e quindi non tornò, evitando così che Saul lo danneggiasse ancora di più.

Come popolo di Dio, siamo chiamati a offrire perdono quando viene richiesto. Allo stesso tempo, dobbiamo anche essere saggi e non stolti nel modo in cui ci offriamo a coloro che chiedono perdono. Non lo sappiamo, ma è possibile che Davide abbia perdonato Saul. Tuttavia, certamente non si offrì di nuovo a lui come Saul gli aveva chiesto. Non tornò da lui perché non aveva ancora visto il vero frutto del pentimento. Anche per noi questa è una lezione: dobbiamo essere saggi, ascoltando non solo le parole, ma anche osservando le azioni che confermano le parole pronunciate.