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La gioia che dà lo Spirito Santo

I credenti di Tessalonica avevano vissuto una dura persecuzione. Se guardiamo alla prima parte di Atti 17, vediamo che alcuni Giudei lì a Tessalonica avevano creduto grazie all’insegnamento e alla predicazione di Paolo e Sila, ma altri avevano formato una folla e persino scatenato una rivolta in città, cercando Paolo e Sila con l’intenzione di picchiarli, probabilmente anche di ucciderli.

Non li trovarono nella casa di Giasone, come speravano, così presero Giasone e lo trascinarono fuori da casa sua davanti ai magistrati della città, accusandolo di aver ospitato questi “piantagrane”, Paolo e Sila, che in realtà stavano solo insegnando la Parola di Dio nella sinagoga negli ultimi tre sabati.

Quindi, purtroppo, oltre alla minaccia concreta di violenza, c’erano anche conseguenze legali e finanziarie legate alla fede. Giasone e i suoi amici che avevano creduto furono portati davanti ai giudici e furono perfino costretti a pagare una cauzione per essere rilasciati.

Questo è il contesto in cui Paolo scrisse ai Tessalonicesi da Corinto, solo pochi mesi dopo. Paolo aveva dovuto fuggire da Tessalonica, e poi anche da Berea, perché i Giudei di Tessalonica lo avevano inseguito fin lì, costringendolo a scendere fino ad Atene, e infine a Corinto, dove si trovava al momento della scrittura. Scrisse ai Tessalonicesi per incoraggiarli nella loro fede, per dir loro di non arrendersi, di continuare, perché era proprio in mezzo alla persecuzione, e forse proprio a causa della persecuzione che stavano vivendo, che il messaggio della loro fede si stava diffondendo:

Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Infatti da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne;

1 Tessalonicesi 1:6-8

Paolo loda i Tessalonicesi perché sa cosa significa essere perseguitati per la propria fede. Ora, anche i Tessalonicesi stavano vivendo la stessa cosa, solo che la stavano vivendo nella loro quotidianità, a casa, nel loro tempo. Potremmo dire che Paolo aveva sofferto la persecuzione per l’opera che aveva svolto, e sarebbe vero, ma i Tessalonicesi, così come molti altri credenti in città simili, continuavano a vivere la stessa persecuzione che aveva vissuto Paolo. Eppure continuavano a vivere la loro fede lì, localmente. Ne valeva la pena per loro. Valeva la pena affrontare fastidi, dolore, sofferenza, perdite, perché potevano avere ora e per sempre ciò che prima non avevano: una gioia in Cristo donata dallo Spirito Santo.

Avevano una gioia in Cristo donata loro dallo Spirito Santo. Non era un tipo di felicità passeggera e fugace. No, era una gioia duratura, che proseguiva nonostante le difficoltà, nonostante le sofferenze in cui si trovavano.

Quando vediamo questo tipo di gioia, ci colpisce profondamente. Quando vedi gioia in mezzo al caos, alla difficoltà, alla sofferenza, alla persecuzione, ti chiedi subito il perché. Perché questa persona è gioiosa quando dovrebbe essere triste? Perché sembra avere dentro di sé una sorgente di vita che la sostiene, quando invece dovrebbe lamentarsi per la sua situazione? La sua vita sembra capovolta. Sembra strano. Gioia invece di tristezza in mezzo ai problemi? C’è qualcosa di più profondo che sta succedendo qui, qualcosa che non si vede a occhio nudo…

Questa gioia che i Tessalonicesi stavano vivendo era una delle ragioni principali per cui il loro messaggio si stava diffondendo. Sì, stavano parlando con gli altri. Certamente stavano condividendo. Dovevano farlo.

Sì, stavano vivendo l’opera, la potenza dello Spirito Santo. Probabilmente stavano anche vedendo miracoli tra di loro.

Ma è estremamente importante comprendere il contesto in cui queste persone erano diventate credenti e continuavano nella fede. Nonostante le loro circostanze, nonostante le difficoltà, nonostante la persecuzione quotidiana, avevano gioia, una gioia profonda e autentica in Cristo. E quindi, quando parlavano della loro fede, o di ciò che Dio aveva fatto nella loro vita, le loro parole non erano teoriche. Erano esperienziali. Si potevano vedere quelle parole in azione. Si capiva che c’era stato un vero cambiamento.

E così la loro fede divenne conosciuta ovunque. Il messaggio del Signore risuonava grazie alla fede che stavano vivendo, con gioia in mezzo alla persecuzione. I Tessalonicesi diventarono un esempio per tutti. Le chiese della Macedonia – almeno quelle di Filippi, Tessalonica e Berea – e quelle dell’Acaia, come la chiesa di Corinto e forse altri credenti e altre chiese. La loro fede divenne conosciuta ovunque e il messaggio del Signore risuonava da loro, poiché seguendo l’esempio di Paolo e Sila e con la loro gioia in Cristo, divennero un esempio anche per tutte le altre chiese.

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Risuscitato

La scorsa notte ho avuto l’opportunità di rispondere a una domanda di un amico, un nuovo credente che era uscito dall’Islam e da una sua forma di ateismo per poi arrivare a mettere la sua fede in Cristo. Mi ha fatto una domanda riguardo all’opera dello Spirito Santo, mentre cercava di comprendere la differenza tra le tre persone della Trinità, i tre modi in cui Dio si rivela a noi.

Il mio amico ha chiesto cosa fa lo Spirito dentro di noi, e io ho spiegato che, prima di tutto, è lo Spirito di Dio che ci rende vivi davanti a Dio. Nei nostri peccati, siamo morti, e in Cristo siamo resi vivi, mettendo la nostra fede e fiducia nella sua morte e risurrezione. Facendo questo, ci viene dato lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo, e siamo segnati come popolo di Dio con un sigillo, un sigillo che rappresenta la promessa davanti a Dio che siamo suoi.

Questo, naturalmente, viene direttamente da Efesini 1 e 2, dove vediamo che Paolo dice che eravamo morti nei nostri falli e peccati, eppure, nonostante fossimo morti, Dio ci ha resi vivi – spiritualmente vivi – in Cristo. Quando ci presentiamo davanti a Dio, egli ci vede in Cristo. Ci vede vivi.

Ma se siamo nei nostri peccati, siamo morti. Non c’è nulla che possiamo fare. Non c’è nulla che possiamo compiere da soli per renderci vivi. Siamo morti.

Ma Cristo ci rende vivi. Egli agisce su di noi come colui che può far rivivere i morti, dandoci lo Spirito Santo come sigillo, conferma, la vera vita che è dentro di noi. È la vita che solo Dio può dare, ed è la vita con cui viviamo come coloro che seguono Gesù.

Ovviamente, in questa stagione pasquale, è un momento opportuno per ricordare ciò che Cristo ha fatto. La scorsa domenica è stata la “Domenica delle Palme”, in cui si ricorda quando Gesù entrò a Gerusalemme seduto su un asino, mentre la folla agitava rami di palma in segno trionfale per il re che veniva. Questo venerdì sarà il “Venerdì Santo”, in cui si ricorda la morte di Gesù sulla croce. E questa prossima domenica celebreremo la risurrezione di Cristo, quando Gesù è risorto dai morti.

E quindi è giusto ricordare che Gesù è stato il primo tra noi a risorgere dai morti. Quando diciamo di seguire Cristo, intendiamo, ovviamente, che desideriamo fare ciò che Egli ci dice di fare. In questo modo lo seguiamo, obbedendogli, dimostrando il nostro amore per lui, proprio come lui dice che dobbiamo fare: facendo ciò che ci comanda.

Ma c’è anche un altro senso molto importante in cui lo seguiamo, almeno uno che voglio sottolineare mentre leggo la storia della risurrezione di Cristo stamattina. Noi seguiamo Gesù nella sua morte e risurrezione.

Ma egli disse loro: «Non vi spaventate! Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso; egli è risuscitato, non è qui; ecco il luogo dove l’avevano messo.

Marco 16:6

Se ricordiamo che eravamo morti nei nostri peccati, eppure siamo stati resi vivi in Cristo, possiamo comprendere che stiamo effettivamente seguendo un percorso spirituale simile, passi simili a quelli che ha seguito Gesù. Senza meritare la punizione, Gesù è morto come sacrificio perfetto. Non ha peccato, ma è stato ucciso sulla croce, versando il suo sangue per i nostri peccati.

Noi, invece, meritavamo la punizione. Meritavamo la morte che abbiamo ricevuto a causa dei peccati che abbiamo commesso. Grazie a Dio che ha ideato un piano che permettesse che i nostri peccati fossero pagati da Cristo stesso!

Quindi ringraziamo ancor di più, perché Gesù non solo ha pagato per i nostri peccati, ma è anche risorto dai morti. È stato risuscitato. È tornato in vita, e così anche noi, in questo stesso modo, seguiamo Gesù. Poiché ha pagato per i nostri peccati, ci permette di tornare alla vita anche noi. Ci permette di vivere, e vivere per sempre. Come lui, non sperimentiamo più la morte spirituale. Vivremo per sempre, eternamente con lui.

Questo è il dono meraviglioso che ci offre. Ci dona la vita. Una vita che continua per sempre. Una vita che ci strappa via dal regno delle tenebre per portarci nel regno di Dio. Una vita che ci permette di vivere per lui per sempre, glorificandolo, vivendo per lui invece che per me stesso. Un tempo ero morto, ma ora, come Gesù, sono stato risuscitato alla vita per vivere in questo modo e con questo scopo, per sempre.

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Fattosi coraggio

Giuseppe d’Arimatea era un membro del Sinedrio, uno dei capi che aveva appena fatto parte del gruppo che aveva mandato Gesù davanti a Pilato, la mossa che alla fine portò Gesù alla morte. Da quello che possiamo capire, sembra che Giuseppe non abbia preso la parola in favore di Cristo prima che Gesù morisse. Forse non si rendeva conto che la situazione sarebbe arrivata a tanto. Forse non era sicuro di ciò in cui credeva. È possibile che fosse stato intimidito e non avesse avuto il coraggio di parlare. Non lo sappiamo con certezza.

Ma Giuseppe ora sapeva che Gesù era morto. Un uomo innocente era stato inchiodato alla croce e lasciato morire. Il sangue di Gesù era sulle loro mani, e Giuseppe lo sapeva. Sapeva che loro, i capi dei Giudei, avevano fatto questo, e non poteva permettere che l’infamia continuasse.

Era però un tempo pericoloso. I Giudei non avevano avuto scrupoli a uccidere un uomo innocente, e i Romani erano indifferenti al fatto che un Giudeo vivesse o morisse. Volevano semplicemente mantenere la pace. Il loro obiettivo principale era conservare l’impero e mantenere lo status quo civile. Nessuna persona, né singola né in gruppo, innocente o meno, avrebbe potuto ostacolare tali obiettivi.

Essendo già sera (poiché era la Preparazione, cioè la vigilia del sabato), venne Giuseppe d’Arimatea, illustre membro del Consiglio, il quale aspettava anch’egli il regno di Dio; e, fattosi coraggio, si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù.

Marco 15:42-43

Ci volle grande coraggio per Giuseppe per andare da Pilato a chiedere il corpo di Gesù. Avrebbe potuto essere identificato come uno dei suoi seguaci. Avrebbe potuto essere considerato uno dei nemici. Dopo la morte di Gesù, i suoi discepoli potevano essere i prossimi, braccati e uccisi.

Questa fu, infatti, proprio la questione che il Sinedrio prese in considerazione poche settimane dopo. Avevano arrestato gli apostoli, che a quel punto avevano ricevuto lo Spirito Santo e avevano reso pubblica la nascita della chiesa a Gerusalemme, e volevano ucciderli.

E successivamente, con l’arresto di Stefano, passarono all’azione. Lo uccisero e una persecuzione scoppiò contro i credenti.

Quindi Giuseppe era consapevole del pericolo in cui si trovava. Capiva bene il clima nel quale stava agendo. Sapeva che sarebbe stato un grande rischio essere conosciuto come colui che si prendeva cura del corpo di Cristo.

Eppure andò. Prese coraggio. Andò audacemente da Pilato. Aspettava la venuta del regno di Dio. Pensava che Gesù potesse essere colui che avrebbe restaurato il regno in Israele, ma quelle speranze ora erano state infrante. Eppure avevano comunque ucciso un uomo innocente.

Agiremo noi con tale audacia? Con tale coraggio? Anche di fronte al pericolo? O, anche se non al pericolo, di fronte all’imbarazzo? O alla possibile perdita di status? O di denaro? Non perché siamo identificati con la nostra chiesa o con una particolare posizione politica, ma perché siamo identificati con Gesù. Gesù vale così tanto per noi da rinunciare a tutto il resto? Che sia così. Che possiamo andare con audacia, che possiamo vivere con coraggio per via della nostra identificazione con Cristo.

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Lo berrò nuovo

Mentre Gesù celebrava la Pasqua con i suoi discepoli, fece alcune affermazioni semplici che, a mio parere, tendiamo spesso a complicare troppo a causa delle nostre tradizioni religiose e di una comprensione limitata del quadro più ampio di ciò che Gesù stava per compiere, sia nelle ore successive che nei secoli a venire.

Per prima cosa, mentre cenavano insieme, Gesù prese del pane, lo spezzò e iniziò a distribuirlo ai suoi discepoli:

Prendete, questo è il mio corpo.

Marco 14:22

Molto semplicemente, Gesù stava dicendo ai suoi discepoli che il suo corpo sarebbe stato spezzato, proprio come aveva spezzato il pane.

Poi prese un calice di vino e lo passò a tutti loro, e tutti ne bevvero. Disse loro:

Questo è il mio sangue, il sangue del [nuovo] patto, che è sparso per molti.

Marco 14:24

Ci sono alcune cose da notare qui. Prima di tutto, dice che questo è il sangue dell’alleanza. Quale alleanza?

Dio aveva fatto delle alleanze – o, in altri termini, “accordi” – con il suo popolo. Egli sarebbe stato il loro Dio, e loro sarebbero stati il suo popolo. Lo fece con Abramo. Lo fece con Mosè.

Dio sarebbe stato il loro Dio: li avrebbe protetti, guidati, custoditi, e molto altro. In cambio, essi lo avrebbero obbedito. Avrebbero seguito i suoi comandamenti e fatto ciò che Egli aveva ordinato.

Questa era l’essenza dell’antica alleanza: un accordo tra Dio e il suo popolo, il popolo d’Israele.

Ora, Gesù sta dicendo che lui stesso sta stabilendo una nuova alleanza. Egli sta ora compiendo un’alleanza che supererà quella fatta in precedenza tra Dio e il popolo di Israele.

Ricordiamo… solo Dio può fare un’alleanza tra Dio e il suo popolo. Eppure, qui c’è Gesù che compie quell’alleanza, dimostrando così che egli stesso è Dio. Egli sta dicendo che quel vino nel calice che condivide con i suoi rappresenta il suo sangue che viene versato per il popolo. Questo sangue è ciò che porterà redenzione. È ciò che purificherà il suo popolo, donando loro il perdono dei peccati. Questo vino rappresenta questo nuovo accordo: chiunque ripone la propria fede in quel sangue, sarà ora il suo popolo. Questo è l’accordo: attraverso Gesù, Dio sarà il nostro Dio e noi saremo il suo popolo.

Ma c’è un quadro ancora più grande in questa storia, oltre alla salvezza offerta da Gesù. C’è un disegno ancora più ampio del semplice rivelare la sua identità in quel momento. Gesù fa un’affermazione profetica per concludere il suo insegnamento ai discepoli attraverso il pane e il calice:

In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio.

Marco 14:25

Anche ora, stiamo aspettando il ritorno di Gesù. Egli è lo sposo, e il suo popolo è la sua sposa, e ci sarà un grande matrimonio in cielo con un grande banchetto per celebrare l’unione del Signore con il suo popolo. Infatti, se leggiamo in Apocalisse 19, vediamo una rappresentazione esatta di ciò che stiamo aspettando:

Poi udii come la voce di una gran folla e come il fragore di grandi acque e come il rombo di forti tuoni, che diceva: «Alleluia! Perché il Signore, {nostro} Dio, l’Onnipotente, ha stabilito il suo regno. Rallegriamoci ed esultiamo e diamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua sposa si è preparata. Le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le opere giuste dei santi».

E l’angelo mi disse: «Scrivi: “Beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell’Agnello”». Poi aggiunse: «Queste sono le parole veritiere di Dio».

Apocalisse 19:6-9

Ci sarà un grande banchetto per lo Sposo e per la Sposa. Gesù sarà presente al banchetto nuziale, insieme a tutti coloro che sono la Sposa di Cristo, coloro che fanno parte del suo Regno. Gesù è l’Agnello che è stato immolato. È il suo banchetto!

Sarà quello il momento in cui berrà di nuovo il calice nel Regno. Sarà il giorno in cui la Sposa sarà unita al suo Sposo, il giorno in cui il Regno di Dio giungerà alla sua piena realizzazione e compimento.

Quando celebriamo la Cena del Signore, dobbiamo ricordare che Gesù sta dicendo cose profondissime. Egli sta proclamando ciò che è già avvenuto. Sta dichiarando l’accordo che Dio ha ora stabilito con il suo popolo attraverso il sangue di Cristo. E sta anche preannunciando ciò che deve ancora accadere, mentre attendiamo il giorno in cui tutto sarà compiuto e saremo per sempre uniti a lui.

Maranatà – vieni, Signore Gesù! Che tu possa un giorno bere il calice nuovo alla nostra presenza, come tua Sposa.

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Nient’altro che foglie

Oggi ho imparato qualcosa sull’agricoltura e sulla coltivazione dei fichi. Ero curioso di sapere perché Gesù fosse così contrariato con il fico quando vide che aveva delle foglie, ma poi, guardando più da vicino, si accorse che non portava alcun frutto.

Veduto di lontano un fico, che aveva delle foglie, andò a vedere se vi trovasse qualche cosa; ma, giunto al fico, non vi trovò nient’altro che foglie; perché non era la stagione dei fichi. E [Gesù,] rivolgendosi al fico, gli disse: «Nessuno mangi mai più frutto da te!» E i suoi discepoli l’udirono.

Marco 11:13-14

Quello che ho imparato oggi è che quando un fico ha le foglie, dovrebbe anche essere nel processo di produzione del frutto. D’altra parte, se non è la stagione dei fichi, non dovresti nemmeno vedere le foglie sull’albero.

Quindi, qual era il problema, in questo caso, con quel fico? Il problema non era necessariamente che l’albero non stesse producendo frutto. Il problema era piuttosto che l’albero stava producendo foglie, facendo sembrare che dovesse portare frutto, e invece non c’era alcun frutto. Aveva l’aspetto giusto per portare frutto, ma in realtà non stava producendo nulla.

Ai tempi di Gesù, questo poteva rappresentare la situazione spirituale, il contesto spirituale in cui Gesù si trovava con la nazione d’Israele. Erano presumibilmente il popolo di Dio. Presumibilmente lo servivano, eppure non gli obbedivano. Erano orgogliosi. Non volevano veramente Dio, volevano i benefici dell’essere il popolo di Dio senza però conoscerlo davvero o vivere secondo i suoi comandamenti, in una relazione autentica con Lui.

In breve, come il fico, producevano tutte le foglie, ma non portavano alcun frutto.

Il fico rappresentava la nazione d’Israele.

Vediamo la prova di questo, in effetti, intercalata con il racconto del fico. Subito dopo che Gesù incontra inizialmente il fico, entra a Gerusalemme e rovescia i tavoli dei cambiavalute e di quelli che vendevano sacrifici. Il tempio, il luogo dove Gesù fa questo, era destinato a essere un luogo santo. Un luogo di preghiera. Un luogo dove si offrivano sacrifici. Un luogo in cui Dio veniva adorato e glorificato. La maggior parte dell’attività, però, era in realtà commerciale. Le persone erano più preoccupate di fare soldi in quello spazio che di avvicinarsi a Dio.

Il tempio sembrava essere un luogo che avrebbe servito Dio – come il fico, aveva tutte le foglie – ma non portava frutto. Non stava servendo Dio. Non era necessariamente un luogo per adorarlo. Serviva l’uomo. Offriva all’uomo un modo per vendere beni e servizi religiosi.

Un secondo esempio, dopo che Gesù e i discepoli ripassano accanto al fico e lo trovano seccato, è la questione relativa al battesimo di Giovanni. I farisei si erano avvicinati a Gesù chiedendogli con quale autorità stesse facendo ciò che stava facendo. Chi gli aveva detto che poteva rovesciare i tavoli dei cambiavalute? Chi gli aveva detto che poteva sconvolgere gli affari di quelli che vendevano sacrifici?

Anche nel fatto che questi capi religiosi si avvicinino a Gesù con questa domanda, vediamo l’esempio del fico senza frutto. Erano i leader religiosi del popolo d’Israele, non Gesù, e volevano esercitare la loro autorità su di lui e sul sistema religioso. Ma se stessero davvero portando frutto, avrebbero dovuto riconoscere che ciò che Gesù aveva fatto veniva da Dio. Le azioni di Gesù avrebbero dovuto spingerli a inginocchiarsi in pentimento, non a giudicarlo e a chiedergli con quale autorità stesse agendo nei cortili del tempio.

Ma Gesù va anche oltre. Fa loro una domanda: il battesimo di Giovanni veniva da Dio o dagli uomini?

Non lo sanno.

Eppure avrebbero dovuto saperlo. Avrebbero dovuto riconoscere la chiamata al pentimento di Giovanni come proveniente direttamente da Dio. Avrebbero dovuto essere i primi in fila a pentirsi dei loro peccati.

Ma la verità è che non comprendevano le vie di Dio. Non potevano comprenderle. Non era loro possibile farlo, perché erano spiritualmente ciechi. Spiritualmente sordi. I loro cuori erano induriti e incapaci di capire che la chiamata al pentimento era per l’intera nazione. Non solo per alcuni. Per tutti.

Questi farisei, dunque, erano come il fico. Avevano l’aspetto giusto all’esterno, avevano tutte le “foglie” che li facevano apparire corretti, ma non portavano frutto.

Credo sia importante sapere che l’esempio del fico potrebbe non rappresentare solo la nazione d’Israele. Era un avvertimento per loro, ma è anche un avvertimento per noi. Il popolo di Dio dovrebbe prestare attenzione all’avvertimento del fico. Sembriamo a posto dall’esterno? Stiamo producendo foglie solo per dare l’impressione che stiamo portando frutto? Abbiamo l’aspetto di un seguace sano di Cristo senza produrre il frutto di Cristo dentro di noi o attraverso di noi?

Dobbiamo essere sicuri di imparare la lezione e prestare attenzione all’avvertimento del fico. Non possiamo ingannare Dio. Egli cercherà il frutto, e lo troverà o non lo troverà. Saremo un popolo che porterà frutto? O saremo semplicemente un popolo che produce solo foglie?

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Vieni in aiuto alla mia incredulità

Il padre era venuto per trovare Gesù. Suo figlio era intrappolato in una caverna di sordità e mutismo, incapace di sentire e di parlare. Tuttavia, questo padre aveva sentito dire che c’era un uomo capace di guarire, e sperava che quest’uomo potesse cambiare tutto, che permettesse a suo figlio di udire e parlare di nuovo.

Ma il padre stava quasi commettendo un errore fatale nel suo approccio con Gesù. Fece la sua richiesta dicendo: “Se puoi fare qualcosa…”, e poi chiese a Gesù di guarire suo figlio.

“Se puoi…”, ripeté Gesù, con tono interrogativo. Sei sicuro di volerlo dire in questo modo?, sembrava rispondere Gesù. Tutto è possibile per chi crede.

Ed è proprio qui che penso possiamo tutti identificarci con questo padre:

Subito il padre del bambino esclamò: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità»

Marco 9:24

Il padre non sapeva se riusciva davvero a credere oppure no. Avevano sofferto a lungo per il fatto che il loro figlio non potesse sentirli. Erano profondamente tristi di non poter parlare con lui. Anzi, probabilmente era perfino motivo di vergogna familiare il fatto che il loro figlio fosse conosciuto come posseduto da uno spirito maligno, uno che cercava regolarmente di ucciderlo

Il padre voleva credere, ma aveva sofferto troppo. Aveva vissuto così tante delusioni. Non sapeva ancora con certezza se potesse fidarsi davvero che Gesù potesse farlo, che potesse veramente guarire suo figlio.

Credeva.
Ma ammise anche di non credere completamente.

Credo che molti di noi possano capirlo. C’è una grande differenza tra dire di credere e vivere davvero secondo quella fede. C’è un divario significativo tra una comprensione teorica della buona notizia del Vangelo e il vivere completamente e fondare la propria vita su quel Vangelo. Crediamo, eppure abbiamo bisogno di chiedere a Gesù di aiutarci nella nostra incredulità. Non siamo certi di poterci fidare di Lui, eppure sappiamo che dovremmo. La nostra cultura e tutto ciò che ci circonda ci insegna a dipendere da noi stessi, mentre Gesù ci dice che possiamo venire a Lui e dipendere da Lui.

Crediamo, eppure dobbiamo chiedere a Gesù di aiutarci nella nostra incredulità.

Oggi compio 51 anni, e se potessi esprimere un desiderio per questo compleanno, sarebbe quello di riuscire a vivere pienamente la fede che ho. Sarebbe quello di poter credere davvero, in modo tale che questo sia evidente, riconoscibile, perché la mia fede sia diventata realtà. Ma per farlo, devo continuare a restare connesso a Cristo, chiedendogli continuamente di aiutarmi a superare la mia incredulità in ogni circostanza. Mi fiderò di Lui oggi? E domani? E il giorno dopo ancora?
Signore Gesù, io credo. Ti prego di aiutarmi a superare me stesso quando dimostro la mia incredulità.

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Non capite ancora?

Avevo bisogno di leggere questa storia stamattina. I discepoli chiaramente non capivano chi fosse Gesù e quale dovesse essere la loro risposta. Gesù aveva già sfamato più di 5000 persone con pochi pani e pesci, e i suoi discepoli avevano raccolto 12 ceste piene di pane avanzato. Ora, aveva sfamato più di 4000 persone, e avevano raccolto 7 ceste piene di pane avanzato.

In entrambi i casi, seguiva un confronto. Nel caso dei 5000, il confronto fu con la folla che aveva seguito Gesù sull’altra riva del lago, desiderosa di farlo re per poter avere altro pane. Amavano mangiare pane gratis! Ma Gesù voleva che capissero chi lui fosse davvero, quindi iniziò a spiegare di sé, dicendo che lui era la manna, il pane disceso dal cielo. Disse che le persone dovevano mangiare la sua carne e bere il suo sangue se volevano vivere. Quello era l’unico cibo e l’unica bevanda che avrebbe offerto loro, oltre a ciò che già avevano ricevuto.

Ora, dopo aver sfamato i 4000, il confronto stavolta è con i suoi discepoli. Gesù aveva detto loro di guardarsi dal lievito dei farisei e di Erode. Dovevano stare attenti alla religiosità che chiede semplicemente un altro segno, e poi un altro ancora, e poi un altro ancora. Se solo avessero avuto un altro segno, allora forse avrebbero creduto. In breve, questo “lievito” era quello dell’incredulità, nonostante sapessero ciò che era vero, nonostante avessero visto con i loro stessi occhi cose che solo Dio poteva fare.

I discepoli non capivano, così Gesù lo spiegò chiaramente e li mise di fronte alla realtà:

Ma egli, accortosene, disse loro: «Perché state a discutere del non aver pane? Non riflettete e non capite ancora? Avete [ancora] il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate? Quando io spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di pezzi raccoglieste?» Essi dissero: «Dodici». «Quando spezzai i sette pani per i quattromila, quanti panieri pieni di pezzi raccoglieste?» Essi risposero: «Sette». E diceva loro: «Non capite ancora?»

Marco 8:17-21

Gesù sta dicendo loro di non essere come i farisei o Erode. Non siate persone che hanno occhi perfettamente funzionanti ma non vedono. Non siate tra coloro che hanno orecchie sane ma non ascoltano né comprendono ciò che sentono.

E soprattutto… non dimenticate.

Ricordate ciò che ho fatto.

E questa è la lezione per me stamattina. In mezzo ai tempi difficili, in mezzo alle sfide, in mezzo a un problema dopo l’altro, devo ricordare che Dio ha già fatto miracoli. È stato fedele, più e più volte. Si è preso cura di noi, di tutti noi, anche in mezzo alla difficoltà. E lo farà ancora.

Il mio ruolo, ciò che devo fare, è credere.

Sì, devo agire. Devo andare avanti. Devo fare ciò a cui lui mi ha chiamato. Ma Gesù promette che andrà con me. Sarà con ciascuno di noi. E sarà la sua potenza a far sì che ogni cosa si compia. Ora, camminerò oggi in quella fede? Oppure camminerò nell’ansia e nell’incredulità, vivendo invece secondo il lievito dei farisei e di Erode? Questa è la domanda per me oggi, ed è la stessa domanda per ciascuno di noi lungo tutta la vita. Su chi sto facendo affidamento? Su me stesso? O su Dio? Prego di poter dipendere da lui oggi. Dalla sua forza e non dalla mia, per la sua gloria.

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Debolezza

La nostra tendenza è quella di innalzarci. La nostra tendenza è quella di mostrarci grandi, di dimostrare di aver compiuto molte cose. La nostra tendenza è quella di cercare di apparire bene agli occhi degli altri.

Paolo dice ai Corinzi che lui ha le credenziali. Infatti, porta le credenziali sul suo corpo. Ha le cicatrici che ha ottenuto predicando il Vangelo e porta con sé queste cicatrici per la predicazione del Vangelo. Ha lavorato duramente, è stato in prigione molte volte, è stato picchiato e flagellato, ed è stato vicino alla morte diverse volte.

Ha ricevuto la severa punizione di 40 frustate meno 1 per cinque volte. Cinque volte!

Bastonato, lapidato. Naufrago. Un giorno e una notte in mare aperto. Pericolo da ogni parte, ha vissuto senza dormire, senza cibo e senza riparo.

Queste sono le credenziali di Paolo. Non sono le credenziali di qualcuno che è potente. Non sono le credenziali di qualcuno che è diventato ricco o si è innalzato mentre viaggiava per predicare il Vangelo. Sono le credenziali di qualcuno che si è completamente donato per una sola causa, per un’idea semplice: che Cristo sia glorificato in lui e che riceva tutta la gloria per le persone che crederanno in lui e vivranno per lui.

Ecco tutto. Vale la pena di tutto questo per quell’unica ragione. Paolo vive la sua vita per quella ragione, e per quella sola, e quindi si vanta della sua debolezza. Non è un uomo forte. Da una prospettiva terrena, umana, è in realtà piuttosto debole, ma tutto ciò che fa, lo fa per la gloria di Dio.

Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza.

2 Corinzi 11:30

Se Paolo deve vantarsi di qualcosa, si vanterà della sua debolezza. Questo è il suo obiettivo. Questo è il suo desiderio: essere conosciuto solo per la potenza che ha grazie al potere di Cristo dentro di lui. È facile vedere la debolezza con cui sta vivendo la sua vita e svolgendo il suo lavoro. Ma guardando alla sua vita, si può vedere l’incredibile effetto, il grande risultato di questa opera nella sua vita. Non attraverso la forza. Non attraverso la ricchezza. E non attraverso alcun potere che Paolo abbia ottenuto. Invece, questo risultato è venuto proprio dalla sua debolezza e dal potere di Cristo che opera attraverso di lui.

Anche questo deve essere il nostro obiettivo: vivere come coloro che sono deboli. Non perché stiamo cercando deliberatamente di essere deboli, ma perché viviamo unicamente per la gloria di Cristo. Non dobbiamo più vivere per innalzare noi stessi, ma per innalzare Cristo. Non viviamo più per la nostra gloria, ma per la sua.

Questa è la trasformazione che Dio opera in noi mentre continuiamo a crescere nella fede. Non viviamo più per noi stessi, ma per lui. Non cerchiamo più di elevarci, ma doniamo a Cristo ogni parte della nostra vita. Questo è ciò per cui egli ci ha creati, ed è ciò che ci ha chiamati a fare: vivere come vasi deboli, completamente dipendenti da lui, per la sua gloria.

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Accrescerà i frutti

Paolo non è completamente sicuro che i Corinzi siano pronti a dare. Li ha lodati, vantandosi di loro davanti alle chiese della Macedonia, ma in verità ha un piccolo dubbio nella sua mente: i Corinzi sono davvero pronti a portare a termine la raccolta per la chiesa di Gerusalemme?

Per questo sta scrivendo ai Corinzi per prepararli. Sta anche inviando Tito e almeno un’altra persona da loro per prepararli ulteriormente. Vuole assicurarsi che siano pronti e che i Macedoni continuino a essere incoraggiati dai loro fratelli e sorelle in Cristo a Corinto, sapendo che stanno facendo questo insieme come un unico corpo, e non solo individualmente.

Così Paolo incoraggia i Corinzi dicendo che possono essere come colui che fornisce il seme al seminatore nei campi:

Colui che fornisce al seminatore la semenza e il pane da mangiare fornirà e moltiplicherà la vostra semenza, e accrescerà i frutti della vostra giustizia. Così, arricchiti in ogni cosa, potrete esercitare una larga generosità, la quale produrrà rendimento di grazie a Dio per mezzo di noi.

2 Corinzi 9:10-11

Questa mattina, leggendo questo passaggio, mi sono chiesto: qual è il vero obiettivo di Paolo nel parlare in questo modo ai Corinzi?

Credo, ovviamente, che Paolo voglia motivare i Corinzi a donare. Vuole che comprendano come il loro dono sia simile alla semina in un campo, con lo scopo di raccogliere un raccolto.

Poi ho riflettuto: in che modo le parole di Paolo vengono distorte ai nostri giorni?

Se si leggono solo piccole porzioni di questo passo e le si estrapola dal loro contesto, si potrebbe facilmente pensare che Paolo stia dicendo che se si dona denaro, si riceverà ancora più denaro.

Ed è proprio così che molti predicatori della “teologia della prosperità” o teleevangelisti di oggi predicano, dicendo ai loro ascoltatori che alla fine riceveranno sempre più soldi. Dicono alla gente che, se solo donano… e continuano a donare… Dio promette che riceveranno in abbondanza. Il loro “raccolto”, che interpretano come il proprio conto in banca, aumenterà. Fanno credere alle persone che Dio voglia dare loro più denaro.

Ma questo non è ciò che Paolo sta dicendo. Egli afferma che la loro giustizia aumenterà. Non sta parlando di un raccolto che necessariamente include un conto in banca più grande. Sta parlando di investimento e ritorno nel regno di Dio. Sta parlando di seminare e raccogliere giustizia. Sta parlando, in ultima analisi, di vivere per la gloria di Dio. Non per la gloria di colui che semina. Né per la gloria di colui che fornisce il seme. No, sta parlando di colui che è il Signore del raccolto: Dio stesso. Egli è colui che riceverà la gloria. È per lui, non per noi.

Allora, vuoi ampliare il raccolto? Il raccolto del regno di Dio? Se sì, allora devi donare da ciò che ti è stato donato. Da ciò che hai ricevuto, devi seminare di nuovo. I tuoi beni. Il tuo tempo. La tua vita. Questo è ciò che ha fatto Gesù. Ha preso la vita che gli era stata data e l’ha donata per noi. Il ritorno sul suo investimento, il raccolto, erano le anime delle persone per le quali è morto, che sarebbero poi state offerte al Padre. Il raccolto degli ebrei e dei gentili.

E ora è questo che Paolo sta chiamando i Corinzi, e ognuno di noi, a fare. Non ad ampliare il nostro raccolto personale, ma ad ampliare il raccolto per il Signore del raccolto, perché tutto appartiene a lui.

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Il favore di partecipare

Paolo stava lavorando a una donazione che le chiese avrebbero offerto alla chiesa di Gerusalemme. Gerusalemme era la sede della prima chiesa, la chiesa madre, per così dire. Era la città in cui gli apostoli continuavano il loro lavoro, ma lo facevano sotto persecuzione e in condizioni di grande difficoltà economica.

Il desiderio di Paolo era di condividere con la chiesa di Gerusalemme, e mentre condivideva questo desiderio e questa visione, iniziò anche a sentire dalle altre chiese la loro volontà di partecipare all’opera. La risposta delle chiese macedoni fu sorprendente:

Infatti io ne rendo testimonianza; hanno dato volentieri secondo i loro mezzi, anzi, oltre i loro mezzi, chiedendoci con molta insistenza il favore di partecipare alla sovvenzione destinata ai santi.

2 Corinzi 8:3-4

I Macedoni non erano ricchi. Anzi, erano piuttosto poveri, eppure i loro cuori erano stati trasformati al punto che desideravano partecipare alla donazione. Volevano essere generosi. Infatti, supplicarono con insistenza Paolo affinché accettasse il loro dono. Non sappiamo se Paolo avesse suggerito loro di non donare o di dare di meno, ma sembra che questa fosse una possibilità. Tuttavia, le chiese macedoni volevano davvero partecipare. Volevano veramente far parte di ciò che stava accadendo. Supplicarono urgentemente Paolo affinché potessero donare.

Paolo usò questo esempio nella sua lettera ai Corinzi per aiutarli a comprendere il vero significato del dono, come risultato del cambiamento che Cristo opera in noi. Gesù aveva dato tutto nel suo amore per i Macedoni, e ora i Macedoni stavano dando tutto ciò che potevano per il corpo di Cristo.

Questo è il cambiamento che Cristo compie in noi quando comprendiamo la verità della salvezza che ci ha donato. Non solo ci dona la vita eterna, ma ci dà anche un cuore nuovo. Questo cambia tutto e, di conseguenza, ci porta a non voler più vivere per noi stessi, ma per lui e per la sua gloria. Non vogliamo più trattenere tutto per noi, ma desideriamo donare tutto a lui e per lui.

Questo è l’esempio che Paolo sta mostrando ai Corinzi. Sta aiutando la chiesa di Corinto a vedere come Dio abbia trasformato così profondamente i cuori delle chiese macedoni, al punto che esse supplicavano Paolo di accettare il dono che avevano preparato, chiedendogli di prendere il loro denaro affinché fosse una benedizione per il popolo di Gerusalemme.

Cosa ci insegna tutto questo? Cosa dobbiamo fare? In che modo siamo stati trasformati? Stiamo vivendo in questo stesso modo, con il desiderio urgente che qualcuno accetti il dono che siamo chiamati a dare?

O viviamo solo per noi stessi? Sto forse vivendo solo per me?

Ognuno di noi, sia che guadagni molto o poco, ha il privilegio di condividere con gli altri. Questo può avvenire attraverso le nostre risorse finanziarie, il nostro tempo o offrendo ciò che possediamo. Ogni persona ha ricevuto e, come risultato di ciò che Cristo ha fatto in lei, dovrebbe anche donare. E nel dare ciò che abbiamo, non doniamo solo dal nostro superfluo, ma lo facciamo con urgenza e insistenza, perché ciascuno di noi ha ricevuto un dono immenso.